Nella loro definizione più semplice, si tratta di pantaloni semplici, tipicamente maschili, in ‘twill’ – un cotone leggero e resistente, liscio, senza pieghe né increspature. Nel vocabolario delle occasioni, potremmo inserirli alla voce passepartout: un conforto all’indecisione sartoriale, un sollievo all’aumentare delle temperature, una necessità quando la circostanza richiede un dress code smart-casual, ovvero un’eleganza disimpegnata che ha il nome di pantaloni chino. Benché gli anni Duemila li abbiano relegati al territorio dell’abbigliamento da lavoro impiegatizio, escludendoli dalle passerelle di stile, oggi torniamo a parlarne. E non in un approfondimento dedicato all’armadio vacanziero dei dipendenti della Goldman Sachs – una delle più rilevanti banche d’affari a livello globale, i cui uffici del venerdì sono costantemente attraversati da pantaloni in cotone leggero – bensì in un articolo dedicato ai ritorni di tendenza. Perché se i detrattori dei pantaloni chino rimangono numerosi, quel che è certo è che si tratta di un capo dalla storia centenaria, con un’etimologia controversa e un presente rinsaldato (da poco) sulle passerelle di moda.
Ludovic De Saint Sernin, Primavera Estate 2024
Rispetto alla loro provenienza, la storia ci ha tramandato due versioni. Secondo la prima, e più diffusa, l’origine dei pantaloni chino risalirebbe al Diciannovesimo secolo, nel contesto della guerra ispano-americana. Le forze armate americane stanziate nelle Filippine pare facessero uso di pantaloni dalla materialità delicata eppure resistente, adatta a mantenersi in situazioni di guerra, ma confortevole al movimento. Il materiale in questione era appunto il ‘twill’, un cotone cinese che chiamavano colloquialmente ‘chino’. In spagnolo, all’epoca lingua ufficiale in terra filippina, ‘chino’ stava infatti, nel gergo informale, per ‘cinese’, da cui poi si è evoluto in sostantivo a sé stante dell’armadio maschile.
Una narrazione secondaria riporta l’etimologia di ‘chino’ al termine spagnolo per ‘tostato’, a sua volta di derivazione persiana. Il tutto si riconnetterebbe al colore tipico dei pantaloni chino, il cosiddetto ‘khaki’, ovvero un marrone sabbiato o, come sostenevano al tempo, tostato. Nati come pantaloni militari intorno alla metà del Diciannovesimo secolo, a partire dal secolo successivo si sarebbero diffusi come parte dell’abbigliamento quotidiano dei civili. La loro forma era affusolata e senza pieghe, proprio al fine di massimizzare l’uso ed evitare un inutile spreco di materiale in plissettature alla moda. È interessante notare come nel lessico statunitense khaki sia divenuto sinonimo di chino, accomunato dalla provenienza militare. Un ulteriore aneddoto rispetto all’etimo khaki è infatti quello riguardante l’ufficiale britannico Sir Harry Lumsden, il quale avrebbe usato una miscela di polveri di curry, caffè e more per tingere la sua uniforme e mimetizzarsi con il paesaggio dell’India, laddove nel vocabolario indiano khaki significherebbe 'polvere'.
Prada, Primavera Estate 2024
Al di là dell’etimo specifico, i pantaloni chino rientrano in quella categoria di abbigliamento nata nell’alveo militare, di cui fanno parte anche i trench, i pantaloni cargo e i blouson. E tuttavia, da tale contesto si sono ampiamente distaccati: a partire dalla metà del secolo scorso, sono diventati parte dell’ensembleufficiale da Ivy League americana. È il cosiddetto stile preppy, indossato dai preppies, i giovani delle università private d’élite degli Stati Uniti, fondato, nella sua declinazione maschile, su due elementi: una T-shirt in cotone con colletto, chiusa da due bottoni – la polo – e un paio di pantaloni in cotone – i chino. Quello dei grandi atenei nord-americani è il primo contesto di novità che ne ha fatto un capo comodo, più elegante dei jeans e meno soffocante dei pantaloni sartoriali in lana.
Da qui, i chino si sono allargati anche a contesti più ufficiali, meno giovanili, fino a diventare mainstream. A questo punto sarebbe iniziata la loro graduale discesa. Almeno fino ad ora. Ripuliti del manto di polvere che li ricopriva, i ‘nuovi’ pantaloni chino da passerella mantengono la materialità del cotone leggero, ma si allargano a nuove possibilità. Tasche sul davanti o sul retro, orli o risvolti alla caviglia, o, ancora, lunghezze slanciate su tutta la gamba. I colori rimangono classici – beige, khaki o blu denim – ma ravvivati da abbinamenti peculiari o inserti. Ne troviamo traccia sulle passerelle della Primavera Estate 2024, da Ludovic De Saint Sernin, dove i chino si abbinano a camicie aperte o trasparenti – ben lontane dall'armadio militaresco o preppy – a Philosophy di Lorenzo Serafini, dove il capo si presta anche a forme femminili. Poi, ancora, Prada, con il suo ritorno all’armadio accademico, Peter Do, ben stanziato sul confine fra Oriente e Occidente della moda, e Marni, dove il casual-chic è di casa.